Il Blog del Dojo

Recensione di Dying for sex.

Un viaggio audace tra eros, malattia e libertà

“Dying for Sex” è una miniserie in otto episodi, adattamento visivo dell’omonimo podcast creato da Nikki Boyer e Molly Kochan, ed è ispirata alla storia vera, toccante e scomoda di quest’ultima.
Se il podcast si sviluppava come un diario a due voci, dove Nikki accompagnava Molly in un percorso di domande intime e interviste quasi terapeutiche, la serie sceglie un linguaggio narrativo autonomo: racconta non solo gli eventi, ma il modo in cui Molly sceglie di vivere dopo la diagnosi di un cancro terminale al quarto stadio.
La serie potete trovarla sulla piattaforma Disney+, e goderverla fino in fondo.

Questa non è la cronaca di una fine, ma una dichiarazione di intenti esistenziali.
Molly non si adatta al ruolo della malata esemplare, né si sacrifica per rassicurare chi le sta attorno.
Lascia un marito presente ma incapace di ascoltarla, si ribella a chi vuole proteggerla dal dolore più che aiutarla a viverlo, e intraprende un viaggio in cui sessualità, libertà e autodeterminazione diventano il vero centro della narrazione.

Intorno a lei, Nikki resta una figura cruciale, quasi speculare.
Se Molly corre verso la vita che sente di non aver mai vissuto, Nikki si ferma, si svuota, rinuncia a tutto — tranne alla possibilità di stare accanto all’amica, fino all’ultimo respiro.
La serie, nella sua struttura a metà tra memoir e confessione postuma, ci porta a esplorare il corpo, la malattia, la morte e il desiderio non come estremi inconciliabili, ma come componenti di un’unica tensione esistenziale: vivere davvero.

Trama, relazioni e slancio erotico

La serie inizia con Molly in terapia, intrappolata in un matrimonio che ha il sapore della stasi.
Suo marito, Steve, è l’uomo ideale per molti: gentile, presente, premuroso. Ma tutto il suo amore si canalizza nel ruolo di caregiver, e così, mentre si dedica ossessivamente alla malattia di Molly, finisce per non vedere la donna che ha accanto.
Una donna che, di fronte a una diagnosi terminale, sente non la voglia di essere protetta, ma l’urgenza feroce di vivere.

Molly si accorge che Steve non la guarda più come un corpo desiderante, non le chiede come sta davvero — e soprattutto, non la ascolta nel suo bisogno più profondo: quello di esistere pienamente, con tutto ciò che questo comporta.
Desiderare, esplorare, toccare, scegliere, sbagliare, sentirsi viva.
Quando capisce che Steve, pur con tutte le sue cure, non è disposto ad accompagnarla in questo viaggio, lo lascia.
E nel farlo, si apre a una trasformazione radicale: rivendica il diritto di essere soggetto della propria esistenza, anche (e soprattutto) attraverso il piacere.

Dopo la separazione, sarà Nikki, l’amica di sempre, a raccogliere i pezzi.
Non lo fa con eroismo né per sacrificio: lo fa per amore.
Lascia il lavoro, mette in pausa la relazione, abbandona tutto per stare con Molly.
La accompagna alle visite, discute con le assicurazioni, gestisce crolli emotivi e notti insonni. Ma soprattutto, le sta accanto senza chiedere nulla in cambio, lasciandole lo spazio per esplorare senza giudizio.

Ed è proprio in questo spazio — disordinato, fluido, fragile — che Molly inizia il suo viaggio erotico:
incontri casuali, esplorazioni BDSM, sexting, masturbazione, sex toys, nuove identità da provare addosso.
Non si tratta solo di sesso. Si tratta di ritrovare se stessa, dentro un corpo che la malattia vorrebbe trasformare in prigione.

Una delle scene più potenti della serie è anche una delle più silenziose:
Nikki, stanca, guarda le magliette sporche del sangue dell’amica e dice di amarle, quelle macchie, perché finché ci sono, Molly è viva.
È un’immagine che racchiude tutto: la presenza, la cura, il corpo come verità, il tempo che scorre e lascia tracce.

Così, mentre Molly si apre alla vita, Nikki la protegge.
Non perché ne abbia bisogno, ma perché ha scelto di esserci.
E in questa danza fatta di desiderio e abbandono, di eros e di malattia, la serie ci mostra due forme di amore che convivono senza annullarsi: quello verso sé stesse e quello verso l’altra.

Sessualità, autodeterminazione e desiderio 

Il corpo malato non è sempre un corpo spento.
In Dying for Sex, Molly ci mostra che la sessualità non si spegne con la diagnosi, anzi: può diventare lo strumento più potente per riconoscersi di nuovo, per riappropriarsi della propria identità in uno dei momenti più fragili della vita.

Per Molly, il sesso non è mai fine a se stesso.
Ogni incontro è un frammento di risposta alla domanda: “Chi sono davvero?”
E così, inizia a esplorare. Masturbazione, dating, sex toys, sexting, pratiche BDSM, relazioni occasionali e momenti di pura curiosità.
Ogni esperienza è un tassello. Un’opportunità per ascoltare il proprio corpo senza mediazioni, per imparare a dire sì e no con chiarezza, per ricostruire una narrazione intima che per anni le era stata negata.

Gran parte di questo percorso avviene online, tra app di dating e relazioni virtuali.
Il corpo, che nella vita reale è fragile, stanco, dolorante, trova nello spazio digitale una zona franca dove desiderare senza spiegazioni, dove giocare ruoli, fantasticare, sperimentare.
Per Molly, anche il sesso virtuale diventa un luogo autentico: non un rifugio, ma una nuova modalità per esplorarsi in sicurezza e senza filtri sociali.
Quando poi passa alla sperimentazione lo fa con naturalezza, senza forzature.

Il piacere non è solo liberazione.
È un gesto politico, spirituale, e profondamente umano.
Per Molly, l’orgasmo diventa una forma di vita, un’affermazione contro la dissoluzione, contro la passività, contro il silenzio.
Anche quando il corpo è segnato, medicalizzato, lei sceglie di viverlo. Non come oggetto, ma come soggetto. Non come condanna, ma come possibilità.

Molly dice una cosa bellissima: che ogni orgasmo che prova è come un piccolo atto di potere.
Non il potere sugli altri, ma il potere su di sé.
Sul suo sentire. Sul suo stare al mondo.

C’è un momento chiave in cui Molly incontra un vicino di casa con cui condivide un’intesa inaspettata: lui è masochista, lei ha desideri inesplorati. Non c’è tempo per etichette.
È un’intesa che parla direttamente al corpo, ma anche a qualcosa di più profondo.
Qui il BDSM non è spettacolarizzazione né provocazione, ma linguaggio della vulnerabilità, della fiducia e dell’ascolto reciproco.
Un incontro erotico che diventa anche esperienza di potere condiviso, di cura, di scoperta.

In ogni tocco c’è una domanda, in ogni orgasmo una piccola verità.
La sua non è una sessualità lineare, risolta o da manuale: è una ricerca costante, a volte disordinata, spesso dolorosa, ma sempre autentica.

E sotto tutto questo, in filigrana, inizia a farsi strada il trauma mai risolto.
Non viene ancora chiamato per nome, ma si sente: nei momenti di dissociazione, nei desideri compulsivi, nelle lacrime che seguono il piacere.
È un nodo invisibile che si stringe piano, e che emergerà del tutto solo più avanti.

Vivere la morte / Morire vivendo

Non c’è eroismo nella morte, ma ci può essere scelta.
Non c’è salvezza nella sofferenza, ma può esserci consapevolezza.
Dying for Sex non ci racconta il morire come una condanna, ma come una soglia — un passaggio che, se attraversato con lucidità e desiderio, può diventare un ultimo atto creativo.

Molly non parla di lotta al cancro come “una guerriera” ma come una persona che affronta le cose, anche con la resa. Cancellando la retorica dell’essere forte.
Molly non nega la morte.
La guarda in faccia, la nomina, le lascia posto nella conversazione, ma non le concede il palcoscenico.
Mentre il corpo si indebolisce, la mente si risveglia.
E in quel risveglio, la serie ci mostra qualcosa di raro: un processo di morire che è anche un processo di fioritura, di nascita tardiva, di intensità compressa in ogni gesto quotidiano.

La morte non incombe come una presenza spettrale, ma come un timer silenzioso.
È lì, e lo sanno tutti: Molly, Nikki, i medici, gli amanti, gli amici.
Eppure nessuno la nomina con disperazione.
Anzi: proprio perché la fine è certa, ogni secondo acquista un peso diverso, più netto, più reale.

Mentre Nikki combatte con assicurazioni, ospedali, stanchezza cronica e frustrazione, Molly sceglie di abitare il suo tempo con cura.
Non con leggerezza, ma con leggerezza responsabile.
Come chi ha capito che la vita non va riempita di doveri, ma di senso.
E questo senso può essere un orgasmo, un bagno caldo, un bacio, una discussione, un messaggio vocale alle tre del mattino.

La consapevolezza della fine, lungi dall’annichilirla, la libera.
Le consente di scegliere chi vuole essere, che corpo vuole abitare, con chi desidera passare ciò che resta.
E in questo, Dying for Sex si trasforma in una dichiarazione di filosofia incarnata:
non siamo qui per resistere al tempo, ma per lasciarci attraversare da esso con coscienza.

Il limite, il potere, il corpo: quando il BDSM è libertà

Nella narrazione di Dying for Sex, il BDSM non è una deviazione narrativa né una parentesi eccentrica: è uno degli snodi più autentici e trasformativi del percorso di Molly.
Non cerca trasgressione. Cerca spazio.
Spazio per essere se stessa, per sperimentare desideri che non ha mai potuto esprimere, per esplorare un linguaggio del corpo che parli di potere consapevole, non subito.

L’incontro con un uomo masochista — apparentemente ordinario, eppure incredibilmente risonante — si trasforma in un’occasione di riscrittura.
Non c’è romanticismo, non c’è finzione: c’è una chiarezza brutale, e per questo profondamente rassicurante.
Nel BDSM, infatti, nulla è lasciato al caso: ogni gesto, ogni parola, ogni intenzione passa attraverso il filtro di tre principi fondamentali: Il consenso, la sicurezza e la comunicazione.

Nessuna azione avviene senza un accordo esplicito. Il consenso non è solo dire “sì”: è sapere a cosa si dice sì, con la possibilità costante di dire no, di cambiare idea, di fermarsi.
Nel gioco tra Molly e il suo partner, il consenso è la base solida su cui si costruisce ogni esplorazione.
Molly sperimenta il dolore in modo sicuro, controllato, protetto. Ogni limite è dichiarato, ogni rischio previsto e contenuto.
E questo è l’aspetto più rivoluzionario: per una donna che ha subito un trauma sessuale in passato, il BDSM non è una ri-traumatizzazione, ma una forma di cura strutturata, dove nulla può accadere senza la sua volontà.
Il gioco non è silenzioso.
Ci sono parole chiave, sguardi, pause, momenti in cui si chiede, si chiarisce, si rinegozia.
Nel BDSM, comunicare è parte dell’intimità, non un’interferenza.
Ed è proprio in questa trasparenza che Molly trova uno spazio di fiducia che le relazioni “normali” non le hanno mai concesso.

Nel BDSM Molly non cerca di guarire dal trauma, ma di riappropriarsi del proprio corpo attraverso la scelta.
Attraverso il limite, l’accordo e la possibilità di dire basta in ogni momento, ritrova un senso di controllo che per anni le è stato negato.

Ecco perché la serie non spettacolarizza queste pratiche:
non le rende esotiche, né le riduce a cliché.
Le racconta per ciò che sono: strumenti concreti di autodeterminazione, di ascolto, di presenza reciproca.

Il corpo che ricorda

In Dying for Sex, il trauma non è raccontato come un evento concluso nel passato, ma come una presenza silenziosa e persistente, inscritta nel corpo.
Il trauma di Molly, uno stupro subito da giovane e mai davvero affrontato, non è semplicemente ricordato: è vissuto, ogni giorno, attraverso il modo in cui tocca, desidera, si espone, si protegge.
È una memoria che non ha parole, ma lascia segni, schemi, chiusure e compulsioni.

Per lungo tempo, Molly ha vissuto dissociata dalla propria sessualità.
Non perché non ne avesse una, ma perché il suo corpo era diventato il luogo di un ricordo impronunciabile.
Una parte di sé — desiderante, curiosa, viva — era rimasta congelata, interrotta, fermata da un evento che le aveva sottratto la possibilità di raccontarsi.

La diagnosi di cancro e la decisione di lasciare il marito non sono solo reazioni alla malattia.
Sono rotture simboliche con tutto ciò che, fino a quel momento, aveva tenuto insieme una narrazione che non le apparteneva più.
Il corpo che si ammala, che si sfalda, che perde forza, diventa improvvisamente anche il corpo che restituisce alla coscienza quella ferita antica, emotiva, sessuale.

Molly non cerca di guarire dal trauma attraverso il sesso.
Non cerca redenzione né catarsi.
Cerca una cosa molto più concreta e rivoluzionaria: riappropriarsi della narrazione del proprio corpo.
Se prima il suo corpo era oggetto del desiderio altrui, ora tenta di diventare soggetto del proprio desiderio.
Ma questa trasformazione non è lineare, né definitiva.
Ci sono momenti di confusione, dolore, fuga.
La serie non ci propone un modello di guarigione, ma un processo umano, fragile, contraddittorio. Ed è proprio questa onestà narrativa a renderla preziosa.

La storia di Molly è, in fondo, la storia di molte donne.
In una società patriarcale, il corpo femminile è spesso ridotto a superficie su cui si proiettano desideri esterni.
Lo stupro è l’estrema espressione di questo meccanismo, e la dissociazione che ne segue è una risposta di sopravvivenza.

La reazione di Molly non è eroica, non è spettacolare.
È politica.
Rivendica il proprio corpo, la propria identità, la possibilità di vivere senza lasciare che lo stupro — o la malattia — diventino l’unica narrazione possibile.
Non vuole guarire per essere “nuova”. Vuole esistere per intero, anche nella frattura.

E così, la serie rifiuta la mitologia della guarigione.
Non c’è un momento catartico in cui tutto si risolve.
C’è invece uno sguardo che cambia. Un dolore che viene nominato. Una ferita che viene inclusa nella storia.
E da quel momento, quella ferita non è più la fine. È l’inizio.

L’amicizia come spazio sacro

Se l’amore romantico in Dying for Sex è instabile, parziale, spesso insoddisfacente, l’amicizia emerge come la relazione più solida e trasformativa dell’intera serie.
Il legame tra Molly e Nikki è la spina dorsale emotiva del racconto.
Non è semplicemente un sostegno: è una scelta quotidiana di esserci, di restare, di accompagnare l’altra nonostante tutto.

Nikki non è una figura idealizzata.
È stanca, frustrata, spesso arrabbiata.
Rinuncia al lavoro, alla relazione, a se stessa.
Litiga con medici, si scontra con limiti burocratici, si perde.
Ma non si tira mai indietro.
E quando le dicono che dovrebbe pensare di più a se stessa, che Molly sta esagerando, lei risponde con una delle immagini più forti della serie:
le magliette sporche del sangue dell’amica, che lei non lava, che tiene strette a sé.
Non per morbosità, ma perché quel sangue è presenza, testimonianza, verità.
Finché ci sono quelle macchie, Molly è viva. E Nikki è con lei.

L’amicizia, in questo racconto, è spazio di intimità non sessuale ma profondamente corporea.
Non c’è bisogno di toccarsi per conoscersi nel profondo.
Basta esserci. Bastano le notti insonni, i pianti condivisi, le corse all’ospedale, i silenzi che non chiedono spiegazioni.
È un’intimità che non ha bisogno di dichiarazioni d’amore, perché si costruisce nella concretezza delle azioni.

In una cultura che sovrastima il legame romantico e sottovaluta quello amicale, Dying for Sex compie un gesto quasi sovversivo:
ci mostra che l’amicizia può essere più profonda, più vera, più totalizzante di qualsiasi relazione sentimentale.

Nikki non è la salvezza di Molly.
E Molly non è il centro della vita di Nikki.
Ma in quegli ultimi anni, nel cuore di quel tempo rubato alla morte, si scelgono ogni giorno.
E in quella scelta reciproca — quotidiana, fragile, concreta — la serie ci restituisce un modello di affetto libero da gerarchie, ma pieno di significato.

Vivere, davvero

Dying for Sex non è una serie sulla sessualità.
Non è una serie sulla malattia.
Non è una serie sulla morte.
È una serie sull’urgenza di vivere quando tutto intorno sembra invitarti a rassegnarti.
È un racconto che ci pone, senza sconti e senza giri di parole, la domanda fondamentale:
“Cosa vuoi fare con il tempo che ti resta?”

Il punto di forza della serie è la sua onestà.
Non offre personaggi perfetti, non costruisce eroine esemplari.
Ci mostra corpi stanchi, relazioni disordinate, scelte discutibili, desideri complicati.
Ci mostra l’umano nella sua forma più nuda: fragile, erotica, confusa, ribelle.

Molly ci insegna che il piacere non è un premio, ma un diritto.
Che il sesso può essere un atto spirituale, una risposta politica, un modo per conoscersi, per affermarsi, per ricucire ciò che la vita ha strappato.
La libertà non sta nel non avere limiti, ma nel poterli scegliere consapevolmente.
Che morire non è l’opposto del vivere, ma la sua cornice più nitida.

E infine, ci ricorda che non possiamo rimandare la verità.
Ogni incontro è un’occasione per essere sinceri.
Che ogni corpo ha diritto di raccontarsi, di desiderare, di esistere.
Che amicizia, intimità e vulnerabilità non sono accessori, ma fondamenta.
E che forse la cosa più rivoluzionaria che possiamo fare è smettere di aspettare.
Smettere di aspettare di guarire, di essere pronti , di aspettare il momento giusto.
E cominciare a vivere.
Adesso.

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